TNTVillage spiegato bene
Luglio 2018. Il sito TNTVillage.scambioetico.org è sotto inchiesta per diffusione illegale di contenuti coperti da diritto d’autore. A diffonderla è lo stesso responsabile, Luigi Di Liberto, che fronteggia, non per la prima volta, una causa legale del genere, ma non ha nessuna intenzione di smettere quello che sta facendo da oltre 13 anni: dare una speranza al diritto.
Cos’è TNTVillage?
Nel panorama dei siti che permettono di accedere a musica e film online, TNTVillage è un caso a parte. Un caso strano. Unico nel suo genere a livello internazionale.
Tutti lo fanno per lucrare sulla pubblicità o per infettare i computer dei malcapitati utenti con virus e malware con cui accedere ad informazioni personali o prendere possesso dei computer. TNTVillage non ha mai voluto alcuna forma di pubblicità e non è vettore di virus.
Talvolta chiede donazioni per sostenersi, ma i suoi contenuti sono accessibili a tutti gratuitamente tranne quando i server sono così pieni che non riescono a supportare il carico degli utenti. Avendo più di un milione di utenti registrati, talvolta capita.
TNTVillage nasce a metà degli anni 2000 quando si afferma una tecnologia chiamata peer-to-peer (o p2p), innovativa rispetto alla più comune chiamata client/server. Poiché ogni tecnologia è politica anche il peer-to-peer porta con sé un insieme di valori il più forte dei quali è la promessa di disintermediazione. Con le reti peer-to-peer si modella una società in cui ogni sistema, e quindi ogni persona sulla rete, vale tanto quanto gli altri. Il p2p si può sfruttare al meglio le risorse di ciascun computer in rete per condividere tutto ciò che si vuole. Anche film o musica, ma non solo. Per esempio la moneta di bitcoin è peer-to-peer.
Sebbene la visione originale del WWW di Tim-Berners Lee sia vicina a quella di una rete peer-to-peer il web si è sviluppato con grandi server che mettono a disposizione le risorse e client che le usano passivamente. Anche nel caso di quello che viene chiamato Web 2.0, ovvero quello dei contenuti generati dagli utenti come i social network, gli utenti saranno pure attivi ma i loro sistemi sono poco più che «terminali stupidi».
Il modello client/server è simile alla logica industriale produttore/consumatore, in cui ci sono grandi nodi produttivi dai quali i consumatori, singolarmente poco importanti, acquisiscono tutto quello di cui hanno bisogno. È un modello intrinsecamente gerarchico, invece il peer-to-peer promette decentralizzazione e disintermediazione e permette a tutti una partecipazione secondo le proprie capacità e la propria voglia di partecipare con l’intento di includere potenzialmente tutti. Come il WWW, anche le reti p2p si basano su Internet ma lo fanno in modo destrutturato con canali di comunicazioni creati quando servono e distrutti subito dopo.
L’idea di reti p2p era quindi già nota in precedenza ma in pratica fu il servizio di condivisione musicale Napster a renderla popolare nell’anno 1999. Napster permetteva agli utenti di mettere in condivisione la propria musica ma venne chiuso nel 2001 dopo una ingiunzione legale che la accusava di pirateria musicale. L’accusa sostenne che, sebbene lo scambio non fosse di per sé illegale, Napster ci lucrava sopra illecitamente.
In una rete p2p “gli utenti partecipanti stabiliscono una rete virtuale, completamente indipendente dalla rete fisica, senza dover rispettare autorità amministrative o restrizioni”.
Le connessioni per trasferire una particolare risorsa (ad esempio un file) si creano al di sopra delle connessioni della rete fisica (Internet) dando luogo ad una struttura virtuale che appare quando c’è bisogno e scompare quando non è più necessaria. Se un nuovo partecipante vuole accesso a quello stesso contenuto, ammesso che qualcuno lo mantenga ancora in condivisione, “scopre” qualcuno dei partecipanti e inizia ad ottenere da lui il contenuto ma anche un elenco di ulteriori partecipanti, e lui stesso diventa disponibile a distribuire ad altri quanto ha già scaricato. L’upload è quindi indistinguibile dal download. Chi entra in questo modo nella rete p2p vi rimarrà fintanto che decide di tenere in condivisione il materiale, e la decisione è solo sua. Se alla fine anche l’ultimo peer decide di eliminare la condivisione di un file, la rete svanirà.
Il materiale condiviso è registrato quindi solo all’interno dei computer dei singoli utenti e non raggiunge mai alcun server centrale e se nessuno lo tiene in condivisione la rete stessa non esiste, a nulla vale tentare di connettersi o di scoprire la rete avendo quella che si chiama «traccia». La traccia esiste, ma la rete è ormai scomparsa.
L’avvento delle reti peer-to-peer è stato uno shock culturale paragonabile a quello di Internet stessa e ha avuto grandi contestazioni da parte di tutti quelli che si trovano in un ruolo privilegiato nel modello gerarchico, sia dal punto di vista tecnico che da quello sociale, ad esempio le aziende di comunicazioni tradizionali, incapaci di offrire reti stabili ed efficaci, o i grandi player tecnologici preoccupati dalle startup che potevano realizzare servizi molto efficaci senza grossi investimenti.
Ma chi contestò le reti p2p più di tutti furono gli intermediari del diritto d’autore: le major discografiche, i produttori cinematografici, gli editori e i produttori di software proprietario, che in quel periodo storico (e anche oggi in verità) si trovavano nel non invidiabile ruolo di intermediari inefficienti in un mercato altamente innovativo.
Commercio illegale
Anche prima degli anni 2000 il materiale proprietario coperto da diritto d’autore veniva distribuito illecitamente attraverso un fiorente mercato illecito creato dai margini di guadagno leciti fuori scala, senza nessuna proporzionalità con i costi di produzione, gli investimenti o i rischi d’impresa. Ad esempio i produttori cinematografici guadagnavano numerose volte sullo stesso prodotto: un film guadagnava nei cinema in prima e poi seconda visione, dopo questo ciclo venivano venduti i diritti di trasmissione ai broadcaster delle reti TV a pagamento e dopo a quelle in chiaro, poi veniva distribuito nei negozi di noleggio dei supporti come Blockbuster. Quando finalmente era messo in vendita in negozio sui supporti fisici a prezzi esorbitanti, aveva già concluso il ciclo molto remunerativo di sfruttamento commerciale delle visioni in sala, del broadcasting e del noleggio. Se si escludono i pochi casi di clamorosi flop (ma questo si chiama rischio d’impresa), i ricavi raggiungevano 10, 20 o anche 100 volte le spese: margini di guadagno impensabili in qualsiasi altra attività produttiva fisica. A questo, negli anni successivi, si unirono anche i guadagni ottenuti dal cosiddetto «equo compenso», ovvero quella tassa che grava sull’acquisto dei supporti di memorizzazione che è appunto pensata come forma di compenso per avere il diritto di effettuare la copia privata delle opere protette dal diritto d’autore (e che eventualmente si potrebbe estendere per coprire anche la trasmissione gravando sul prezzo delle connessioni internet).
Inoltre la digitalizzazione ha reso la duplicazione dei supporti fisici un processo semplice e poco costoso e i tentativi di protezione dei supporti fisici si sono sempre rivelati un fallimento annunciato. A fronte di un costo finale di produzione di pochi centesimi pretendere di mantenere in vendita un prodotto a molte decine di dollari significa chiamare a gran voce la criminalità organizzata.
Negli anni 2000, la distribuzione illecita avveniva ancora attraverso canali fisici, gestiti da organizzazioni malavitose sfruttando ad esempio i venditori ambulanti (chi non ricorda i vucumprà agli angoli delle strade con i pacchi di CD o DVD). Il commercio continuava ad essere “analogico”, come in precedenza era stato il commercio dei dischi su cassette audio o dei film su videocassetta, per lo più negli anni 2000 si vendevano supporti fisici, a volte anche prodotti meglio degli originali, non solo agli angoli delle strade ma anche attraverso i negozi che non raramente compravano i prodotti contraffatti spacciandoli per originali poiché spesso erano virtualmente indistinguibili. Ogni contromisura si rivelava inefficace, e spesso era presa scaricando, in modo molto improprio, i costi sulla collettività.
Peer-to-peer contro il commercio illecito
L’affermarsi del peer to peer apriva un nuovo scenario che era dirompente per il mercato legale delle opere digitali vendute nei negozi su supporti fisici.
Con il peer-to-peer si usava in modo efficace Internet mentre non esisteva ancora una simile offerta legale. Ciò era dovuto all’indisponibilità delle grandi majors cinematografiche, i produttori discografici e gli editori che, pur essendo destinatari di risorse molto rilevanti, pensavano (e per lo più pensano tuttora) a mantenere i propri non realistici margini di guadagno senza fare altri investimenti se non il loro tradizionale lavoro di sfruttamento dell’opera creativa. Inoltre per paura di perdere il dominio sulla propria facile fonte di guadagno impedivano attivamente che altri potessero innovare in questi campi. Non è un caso che le uniche innovazioni rilevanti che a distanza di 20 anni abbiamo sono dovute a player esterni a quel mondo che hanno usato quantità rilevanti di risorse, reperite altrove, per scardinare l’impenetrabile cortina dell’incapacità, e della paura, dei gestori di quel mercato. Apple, con ipod e itunes, Google con Youtube, Netflix e Spotify, solo per citare i casi più noti. Nessuna delle quali proveniente dal mondo editoriale.
Il peer to peer era però distruttivo anche per il mercato illegale. La condivisione che avveniva tra utente ed utente, avrebbe smantellato la vasta rete di vendita dei prodotti illeciti. Bastava che uno solo acquistasse lecitamente un prodotto digitale e tutti, potenzialmente, avrebbero potuto ottenerlo con un effetto di propagazione simile ad una valanga. La criminalità sarebbe stata fuori gioco, saltata dall’iniziativa individuale.
La combinazione di una drastica riduzione dei prezzi di vendita e la creazione di reti di distribuzione efficienti avrebbe spazzato via il commercio illegale delle organizzazioni malavitose. E l’eventuale adozione di licenze collettive estese avrebbe potuto ampiamente ripagare il guadagno perduto nell’ultima parte della filiera dei ricavi. Ma l’industria dei contenuti, invece di sostenere questa prospettiva agevolando la condivisione privata e accordandosi su forme di «equo compenso», preferì seguire un’altra strada: far pagare a tutti i cittadini i costi della propria incapacità imponendo tramite una feroce attività di lobbying la criminalizzazione indiscriminata dei consumatori e degli imprenditori che proponevano efficaci alternative come Napster.
Il commercio illegale era stato tollerato da sempre. Una interpretazione razionale e ben radicata anche tra gli addetti ai lavori era che il commercio illecito fosse funzionale a quello legale in quanto permetteva di avere sul mercato gli stessi beni venduti ad alto prezzo sui negozi, disponibili a prezzi più popolari sulle strade, e aiutava in un certo senso la propagazione del materiale presso consumatori che comunque non avrebbero acquistato l’originale. Era una teoria razionale e più volte riscontrata da ricerche scientifiche indipendenti. La circolazione a basso costo non inficiava più di tanto quella «di lusso», specie se il prodotto era di qualità a differenze della contraffazione di basso livello. Non stranamente la presenza del contraffatto dava più valore all’originale.
Ancor prima che il peer-to-peer esprimesse tutta la propria potenzialità fu chiaro che, nello spazzare via la criminalità organizzata da questa desolante equazione, avrebbe eliminato la ragione fondamentale dello squallido piagnisteo che questi editori usavano per indurre il potere pubblico a sobbarcarsi costi che sarebbero dovuti essere i propri incolpando la pirateria di qualsiasi possibile misfatto compresi, sfidando il ridicolo, Mafia e terrorismo.
Così proprio quando grazie al peer-to-peer si riduceva drasticamente il commercio illecito gestito dalle organizzazioni malavitose, gli editori si diedero da fare per creare a bella posta dei nuovi nemici a cui imputare ogni nefandezza: i propri stessi clienti, i cittadini, tutti. Additandoli come pirati. Tutti pirati!
In un vero delirio di onnipotenza e avidità iniziò, all’inizio degli anni 2000, una vera e propria guerra contro un immaginario mondo di pirati reo, secondo queste potentissime lobby dotate di capitali infiniti con cui abusare dei poteri pubblici, di rubare la loro «proprietà intellettuale».
La proprietà, se di proprietà si vuole veramente parlare, di qualsiasi produzione intellettuale non è dell’individuo ma della società, all’individuo spettano, eventualmente e se il suo comportamento è tale da aumentare il bene pubblico della conoscenza, i diritti morali dovuti alla paternità di quell’opera e quelli patrimoniali limitati ad un determinato periodo oltre il quale vengono meno. Questo è un patto di scambio, e pensare quindi al risultato di questo patto come alla acquisizione di una proprietà di cui poter liberamente godere senza condizioni e per l’eternità è semplicemente un furto nei confronti della società della conoscenza.
Mentre la criminalità organizzata era tollerata perché era gestibile, era intollerabile l’idea che il consumatore potesse sfuggire al controllo del suo sfruttatore grazie al peer-to-peer. Ancora più intollerabile che questo mezzo avrebbe potuto dare ai creatori di contenuti uno strumento per ottenere un pubblico senza l’intermediazione delle case di produzione. Insopportabile era che, proprio in quel momento in cui le attività di lobbying stavano imponendo, con un certo successo, l’idea della «proprietà intellettuale» i cittadini potessero aprire gli occhi sulla natura del patto di scambio che non dava a questi intermediari il dominio sulla conoscenza, ma era solo una concessione parziale e limitata nel tempo sotto la condizione che fosse utile al benessere generale.
Il peer-to-peer diventò quindi il nemico quando ancora movimentava una quantità economicamente risibile di materiale. Non era importante il danno economico che infliggeva, era il segnale che stava dando. E quando le pecore (consumatori) fuggono dall’ovile c’è un solo modo, scatenargli contro il cane più feroce: la legge.
Ma c’è di più: la guerra alla pirateria non aveva alcun sostegno dal punto di vista economico. Mentre l’antipirateria snocciolava numeri che nessuno sapeva (e ai politici non interessava) come erano stati ottenuti, in cosiddette “ricerche” senza la minima indicazione metodologica — vere e proprie fake news, ante-litteram — i ricercatori accademici ripetevano chiaramente che la diffusione online non ne inficiava il commercio. Ad esempio si vedano le conclusioni della pubblicazione «Illegal File Sharing &
The Film Industry» di Daren Zhang (Faculty Advisor: Professor Brian D. Wright) del dipartimento di economia dell’University of California, Berkeley:
«Ad eccezione delle variabili di controllo come l’aspettativa di vita e il tasso di disoccupazione, una constatazione coerente è che l’attività illegale di condivisione dei file tende ad essere più elevata nei paesi in via di sviluppo e a basso reddito rispetto ai paesi sviluppati e ad alto reddito. Le stime dello studio del panel mostrano che a livello superficiale può sembrare che l’attività illegale di condivisione dei file abbia un effetto significativo e negativo sulle entrate dei film, ma quando gli effetti fissi di film e paese sono inclusi, l’effetto scompare completamente e non è più significativo. Le stime dello studio trasversale confermano questa nozione mostrando che tutte e quattro le variabili di interesse non sono significative e non hanno alcun effetto sulle entrate al botteghino. Inoltre, anche se le variabili sono insignificanti, i coefficienti sono cambiati completamente man mano che si aggiungono le variabili di controllo e l’attività illegale di condivisione dei file sembra avere un lieve effetto positivo sui ricavi al botteghino. Variabili come il coefficiente di Gini, il PIL, l’aspettativa di vita, gli anni medi di scolarizzazione e la disoccupazione, d’altra parte, sono molto significative e hanno un enorme impatto sui ricavi al botteghino.»
Insomma, mentre l’attività di condivisione ha addirittura un effetto positivo, sono la povertà, l’ignoranza e la disoccupazione a deprimere il mercato. Che strano, eh!
La proposta di TNTVillage
A questo punto della storia in quella che verrà battezzata “la guerra del copyright” esistevano tre posizioni ben distinte:
- gli editori, produttori e majors, intermediari molto inefficienti che un magistrato italiano identificò come «oligopoli produttivi in contrasto con l’art. 41 della Cost. secondo cui l’iniziativa economica privata libera “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana“»;
- la posizione originale di Richard Stallman (copyleft) che proponeva agli autori di assumersi la responsabilità di dare una risposta autonoma e positiva alla guerra del copyright facendosi carico, anche economico, della distribuzione di materiale che si potesse mettere in condivisione lecitamente e gratuitamente attraverso licenze pubbliche di distribuzione. Una proposta nata negli anni ’80 nel campo del software e che proprio alla fine degli anni ’90 aveva conquistato il campo più generico della produzione intellettuale (ad esempio con le licenze Creative Commons, che però avevano contribuito ad annacquare molto la rigida proposta di Stallman, già in parte ammorbidita nel campo software dalla Open Source Initiative);
- la posizione dei cosiddetti «pirati», ovvero l’esproprio unilaterale del materiale operato da copyright e l’uso della rete per la diffusione pubblica. Un esproprio che talvolta assumeva toni politici anti-capitalisti ma che raramente (anzi praticamente mai) si guardava dal reclamare una propria forma di lucro, ad esempio attraverso la pubblicità online.
Queste tre forme convivevano tra di loro e spesso si fondevano l’una nelle altre. Siti nati a tutti gli effetti come «pirata», usando interpretazioni molto lasche di quello che era il contenuto generato dagli utenti (che spesso non era altro che copia di contenuti protetti da diritto d’autore altrui), ad esempio Youtube, troveranno un esito legale riuscendo a stringere dei rapporti economici con gli editori a copertura dei diritti violati (license waiver). Le licenze pubbliche, specie le prime versioni delle Creative Commons, deragliavano spesso e volentieri in forme di privativa non tanto differenti (anzi talvolta peggiori) dalla licenza di copyright standard e venivano adottate in varia forma dagli editori che se ne facevano belli, senza concedere praticamente nulla. Nel campo del software gli stessi produttori di software libero iniziarono la pratica delle doppie licenze, mantenendo un piede nel mondo libero e uno in quello proprietario.
Nessuna di queste proposte però rappresentava una prospettiva politica riformatrice, dando ciascuna per scontata l’esistenza, in quanto tale, del copyright così come era. A nessuna interessava il superamento della legge a favore di un nuovo diritto umano alla conoscenza.
I pirati e il Partito Pirata
L’adozione del termina «pirata» nella terminologia comune era in realtà molto impropria ma fu funzionale all’obiettivo di indiscriminata criminalizzazione del peer-to-peer. All’inizio il commercio illecito fatto da organizzazioni malavitose non era considerato «pirata», era un illecito senz’altra specificazione, ma con l’arrivo sulla scena del peer-to-peer fu necessaria un aggiornamento terminologico che permettesse di includere i comportamenti che, allo stato della legge, non erano neppure sanzionabili. Si affermò così il termine «pirata» per ricomprendere non solo i comportamenti chiaramente illeciti, ma tutti quei comportamenti generalmente molto diffusi come il prestito e lo scambio senza fini di lucro.
Era iniziata la criminalizzazione generalizzata della popolazione che culminò nell’introduzione di una tassa per tutti, il cosiddetto «equo-compenso» commensurata alla dimensione in megabyte dei sistemi di memorizzazione acquistati, partendo dal presupposto che chiunque comprasse qualsivoglia sistema informatico lo avrebbe usato per registrare materiale ottenuto illecitamente. Così accettammo tutti di essere considerati pirati.
Nel 2006 irruppe sulla scena politica perfino un Partito Pirata che proprio sulla riforma del copyright costruì la propria azione politica ed ottenne sufficienti consensi da conquistare diritto di tribuna in varie assemblee elettive, tentando per via parlamentare di incidere sull’andamento della legislazione. Bene, ma non benissimo.
Se questo è il panorama, TNTVillage si staglia come una vetta in quanto a proposta politica.
La proposta di Stallman, che alla fine sta avendo molto successo nel campo del software, è una proposta auto-proiettata, è cioè l’esatto opposto di una proposta politica: ogni autore deve agire, sostiene Stallman, facendo una scelta che ricade essenzialmente su di sé, ovvero scegliere una licenza libera per la propria produzione, e così contribuire a cambiare quello che c’è fuori, ovvero il mercato.
È una proposta anti-politica per due ordini di motivi:
- il primo perché, essendo di fatto una disciplina individuale, non ammette alcun tipo di contrattazione con l’esterno: l’autore sceglie in totale autonomia e autarchia (in realtà la presenza di molte centinaia di differenti licenze pubbliche, più o meno compatibili con quella definita da Stallman indicano la volontà degli autori di tentare forme surrogate di contrattazione);
- ma il secondo è ancora più forte: con le licenze libere ciascuno agisce all’interno di regole pre-costruite per altre forme di tutela e rinuncia a queste protezioni con l’obiettivo di favorire il bene comune. La proposta di Stallman prevede una concreta e sostanziale rinuncia di sovranità da parte dell’autore, fin dal primo momento, senza necessariamente una contropartita economica. È una rinuncia accettabile per l’ottenimento del superiore obiettivo del bene comune, ma in un certo senso è una azione più religiosa che politica.
Invece di rivendicare per l’autore il proprio posto nel campo della contrattazione sulla legge sul copyright, Stallman abbandona il campo di gioco all’oppositore e cerca un hack, un trucco, per volgere a proprio vantaggio quelle regole. Una posizione furba, che si è conquistata uno spazio economico rilevante e che quindi si è rivelata efficace, ma anche di retroguardia: lascia il campo del copyright agli oppositori e poi tenta di adattarsi, spesso da posizioni di grande svantaggio come è avvenuto con la promozione della versione 3 della licenza GPL.
Per di più la proposta di Stallman funziona bene nel campo del software, o per gli altri beni intellettuali funzionali, ma non è altrettanto valida nel generale campo intellettuale se non per quelle opere, come Wikipedia, che hanno appunto un valore collettivo e funzionale. Per tutte le opere con un valore individuale, un libro di poesia ad esempio, la rinuncia unilaterale alla privativa commerciale fatica a generare un ragionevole remunerazione dell’attività creativa e in questi casi risulta difficile riuscire a costruire un modello di business efficace, che non sia una qualche forma di mero mecenatismo.
Lo scambio etico
TNTVillage invece propone un’analisi più radicale e politica del copyright e presenta una proposta efficace che va sotto il nome di «scambio etico».
L’analisi di TNTVillage è “radicale” in quanto scende alla radice di cos’è il copyright e invece di provare a sovvertirlo, come fa sia il copyleft di Stallman che l’esproprio proletario dei siti di file-sharing illegale, ne accetta la sostanza ma gioca sull’aspetto più eminentemente politico: l’equilibrio del patto di scambio.
Inoltre affronta in modo mirabile la contraddizione del rapporto tra Legge e Diritto, un tema carissimo al pensiero radicale e non è affatto un caso che Luigi Di Liberto, il responsabile dell’Associazione dello scambio etico e leader di TNTVillage provenga da quella scuola politica ed in particolare dal movimento antiproibizionista (a chi interessa un approfondimento sul rapporto, talvolta conflittuale, tra legge e diritto può vedere l’«Appendice: diritto o legge?» dove questo tema è brevemente descritto).
La legislazione è un punto di equilibrio degli interessi tra varie parti nella società: la politica è l’arte della mediazione che permette ai gruppi potenzialmente in contrasto tra loro di trovare un punto accettabile d’intesa che permetta a tutti di avere un sufficiente livello di utilità, probabilmente non il massimo per tutti, ma sufficiente.
Il patto di scambio etico di TNTVillage avanza questa proposta: invece di scendere in una «guerra del copyright» che è potenzialmente distruttiva per tutti (perché tanto la proposta di esproprio dei «pirati» quanto le «licenze libere» mirano alla totale sovversione del copyright o per disapplicazione o per prosciugamento), TNTVillage propone di riportare in equilibrio il campo del copyright.
TNTVillage cerca l’equilibrio nella forza del copyright.
Quale equilibrio?
L’analisi di TNTVillage parte dalla radice del problema del copyright, cercando le motivazioni iniziali che hanno dato luogo alla nascita di questo “diritto”.
Fino al ‘700 non esisteva alcuna legge che garantisse agli autori di godere dei proventi delle proprie opere. Shakespeare non viveva grazie alla vendita dei suoi libri (che pure erano messi in circolazione da stampatori indipendenti), ma facendo l’attore o scrivendo su commissione. Né furono le vendite della Divina Commedia a far diventare ricco Dante.
A parte alcuni precedenti che datano indietro addirittura al VI secolo, la prima legge che stabiliva qualcosa di approssimativamente simile a quello che oggi chiameremmo «diritto d’autore» fu promulgata appunto nei primi anni del ‘700 (era il cosiddetto «Statuto di Anna»), poi ci vollero almeno altri centocinquant’anni per fare in modo che la società finalmente tutelasse il valore morale dell’attività degli autori e la loro pretesa di ottenere proventi economici. Il diritto d’autore è un diritto “positivo”, come si dice, molto recente e sicuramente non destinato a rimanere come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi.
Per ritornare al discorso tra legge e diritto, anche in questo caso si può vedere chiaramente la discrepanza tra diritto (il fatto che sia ragionevole che un autore possa attendersi di ottenere un valore da ciò che crea) e la legge (che appunto non sosteneva queste ragionevoli attese fino praticamente a metà dell’Ottocento).
Il motivo per cui la società più avanzate, ad iniziare da quella britannica, poi la Francia rivoluzionaria, infine gli Stati Uniti e poi via via tutte le altre (in realtà solo in tempi molto recenti ex-Paesi comunisti e la Cina hanno aderito agli accordi sul diritto d’autore), supportarono la nascita di questo nuovo diritto era la speranza che permettendo agli autori di sopravvivere con le loro opere, la società potesse diventare migliore.
A partire dallo Statuto di Anna, per contemperare le esigenze dei cittadini, degli stampatori/editori e degli autori, si è creato una sorta di patto di scambio tra i cittadini, da un lato, e autori dall’altro, in cui i primi “rispettano” il lavoro dei secondi (e quindi non lo copiano, distribuiscono, plagiano, ecc.), perché sono convinti che questo lavoro abbia valore per l’intera società e che se così non facessero gli autori non potrebbero continuare a contribuire positivamente e la società stessa sarebbe peggiore. D’altro canto gli autori accettano che dopo questo periodo di monopolio economico su quanto creano tutti possano godere liberamente delle loro opere, fatti salvi i diritti morali (in sostanza la paternità dell’opera) che rimarranno sempre dell’autore.
La domanda che si è posto TNTVillage, insieme ad un più vasto movimento di riforma del copyright, è se questo patto di scambio sia ancora valido alla luce delle innovazioni tecnologiche.
La risposta a questa domanda è variegata: molti sostengono che il patto sia definitivamente rotto con l’entrata in scena dei grandi «oligopoli produttivi» che hanno fatto incetta, spesso a costi irrisori e con contratti capestro, dei diritti economici degli autori, e che contemporaneamente hanno brigato per allungare indefinitamente i tempi di questa privativa prima che l’opera diventi di pubblico dominio, tempi che ormai si possono estendere ben oltre una vita umana. Altri sostengono che le tecnologie dell’informazione hanno reso superflui gli oligopoli produttivi dell’informazione e dovrebbero semplicemente essere smantellati, ad esempio fornendo agli autori un reddito base “di creatività” che copra qualsiasi possibile opera prodotta e messa in circolazione liberamente. Altri ancora fanno rientrare la produzione creativa nello scambio del reddito di cittadinanza, per cui una delle forme con cui il cittadino, percettore di un cospicuo reddito base, ripagherebbe la collettività sarebbe fornendo i diritti economici della propria opera creativa.
Una cosa è chiara, però, gli intermediari hanno un ruolo disfunzionale rispetto al binomio cittadini-autori e finiscono per giocare sia contro gli uni che contro gli altri, e soprattutto contro lo sviluppo di una vera società della conoscenza in quanto interessati allo sfruttamento economico infinito della conoscenza prodotta dagli autori che frutta loro enormi quantità di soldi che usano per manipolare il discorso pubblico a favore dei propri interessi.
Quello che questi intermediari tentano di far passare come un problema di poco conto, non più di una bega commerciale tra qualcuno che vende e qualcuno che non vuole comprare, è in realtà il nodo centrale per una società che voglia veramente essere una società della conoscenza.
TNTVillage sostiene che non è possibile parlare di «Società della Conoscenza» se la conoscenza stessa non riesce a vivere in libertà ed è imprigionata senza aver modo di circolare per un tempo che può essere superiore a quello di una vita umana. Pretendere di far diventare il copyright una proprietà esclusiva degli autori, o peggio degli intermediari, senza che diventi mai disponibile per l’intera collettività è per TNTVillage il più grande freno all’evoluzione verso una vera società della conoscenza.
D’altronde TNTVillage non contrasta la giusta aspettativa degli autori ad una remunerazione e neppure quella degli intermediari (pur stimolandoli ad una maggiore efficienza). Tutto questo è un bene per la società che non può essere espropriato semplicemente mettendo in circolazione il materiale altrui “senza limiti” o adottando unilateralmente licenze di distribuzione del materiale che obblighino gli autori a cercare modelli di business non necessariamente applicabili (per quanto quest’ultima sia senza dubbio un’opportunità molto condivisibile).
Fare business su un’opera creativa è un bene, purché anche i creatori siano stimolati a superare la mera logica della rendita infinita in cui il copyright oggi ha trasformato il bene intellettuale. L’obiettivo deve essere la crescita del patrimonio comune di conoscenza, non l’arricchimento economico di pochi oligopolisti, specie quando questi rappresentano una classe sociale senza alcun talento se non quello di sfruttare gli altri.
La proposta di scambio etico parte da un’analisi ragionevole del ciclo di sfruttamento dell’opera creativa, prendendo come modello quella più remunerativa e complessa, l’opera cinematografica, e valutando in 12 mesi (all’inizio erano 18) dal momento della pubblicazione su supporto fisico, il tempo di estinzione del valore commerciale di novità. È bene sottolineare: 12 mesi non dall’uscita dell’opera, ma dalla sua pubblicazione su supporto fisico replicabile destinato al pubblico, cioè dal momento in cui una normale attività di copia di backup del supporto fosse generalmente possibile.
Questo significa che la proposta di TNTVillage è quella di reclamare il diritto, in quanto parte in causa del patto con gli autori, di poter mettere in circolazione libera, senza alcuna forma di lucro, un bene intellettuale dopo un tempo congruo dalla fine del suo massimo sfruttamento commerciale come novità.
È una proposta molto solida dal punto di vista ideale, su cui si innestano una serie di interessanti vantaggi sociali.
La proposta di scambio etico è vantaggiosa per gli autori che nell’attuale mercato vivono la deprimente situazione che, indipendentemente dalla qualità del loro lavoro, vedono il panorama saturato da una quantità sempre crescente di “novità” (spesso di infima qualità, solo per fare numero) su cui le case di produzione concentrano gli impegni, mentre le opere uscite dalla fase di novità vengono in breve relegate «in catalogo» che spesso è un modo per dire «nel dimenticatoio». Inoltre la politica dei prezzi alti per la concessione dei diritti accessori, o spesso la totale mancanza di esito, sui mercati secondari (es. ebook), fa spegnere ogni possibilità che un’opera conquisti il pubblico adeguato (specie quando è di valore o ha una certa complessità). Queste opere che hanno esaurito la fase di novità, non più sostenute dalla promozione pubblicitaria, perdono la possibilità di un’ampia circolazione, perché spesso sono tenute in catalogo a prezzi molto alti, che disincentivano i clienti a comprarle (visto che poi sono ossessivamente incentivati a correre dietro le ultime novità).
TNTVillage si è inoltre ritagliato un ruolo significativo tra il pubblico dei nostri connazionali all’estero che spesso non hanno alcuna possibilità di ottenere legalmente contenuti in lingua italiana (talvolta tagliati fuori dalla dissennata politica di segmentare la produzione audiovisiva per zone geografiche, per cui taluni supporti come ad esempio i DVD, non possono essere visionati in zone differenti da quelle in cui sono destinati e non vengono pubblicati per altre zone). In questo caso TNTVillage sta surrogando, senza costi sulla collettività, una vera e propria forma di servizio pubblico, laddove le istituzioni preposte con rilevantissimi costi offrono contenuti risibili ai connazionali all’estero.
Chiunque conosca anche superficialmente TNTVillage sa che l’aspetto che contraddistingue il sito rispetto agli altri motori di ricerca che gli vengono avvicinati, ma solo dai detrattori, è la vitalità del forum di discussioni che è in parte un luogo di scambio di opinioni e in parte un mezzo per organizzare il lavoro collettivo. In particolare si deve apprezzare l’estrema attenzione dei collaboratori di TNTVillage nella precisa catalogazione di tutti i materiali condivisi dagli utenti, con schede descrittive e tecnologiche relative ai formati di divulgazione.
Il sito TNTVillage sostiene di non contenere neppure un bit di materiale coperto da diritto d’autore in quanto, come spiegato in precedenza, i contenuti sono registrati nei computer delle persone che lo tengono in condivisione, persino le locandine o gli altri frammenti visuali visibili nel forum sono collegati dagli utenti a siti esterni legali, come IMDB o Youtube e non caricati nei server di TNTVillage. Il contenuto non transita mai attraverso i server perché le reti virtuali costruite tra i peer non hanno alcuna necessità di coinvolgere il sito centrale, che agisce, proprio come se fosse catalogo, descrive cosa potrebbe essere disponibile, ma non lo divulga.
I gestori del sito TNTVillage dicono di non aver fatto sul proprio server, ed è una affermazione credibile, neppure l’installazione dei programmi in grado di effettuare lo scambio dei dati (ad esempio bittorrent) ma solo quelli necessari a calcolare le statistiche sull’andamento degli scambi sulla rete per mostrare la vitalità di un trasferimento. Se si andasse a verificare il traffico di rete di questi server si vedrebbero solo le richieste verso il sito web del forum, le connessioni di questo al database o la posta elettronica verso gli utenti, esattamente quello che avviene in qualsiasi altro sito web del genere. Nessuna connessione con protocollo peer-to-peer e in particolare bittorrent coinvolgerebbe i server di TNTVillage. Le statistiche contano il numero dei download in corso e completati per gli utenti, ma questi download non sono mai stati fatti coinvolgendo TNTVillage che ne è un semplice spettatore.
Lavorare per la conoscenza
L’immenso lavoro di catalogazione, che neppure gli editori fanno più, poiché sempre più spesso si limitano a striminzite informazioni di natura prettamente commerciale, è esso stesso un patrimonio degno di essere preservato e rappresenta una collezione che, allo stato attuale, non ha eguali in Italia e andrebbe preservato. È comprensibile che un editore che tiene i suoi titoli ad ammuffire in un catalogo spesso inaccessibile voglia spazzar via questo patrimonio. Contrasta con il suo interesse a tenere in bella vista solo le novità remunerative.
TNTVillage «restituisce ai cittadini il benessere della conoscenza» e fornisce agli autori quel pubblico che spesso i propri stessi editori gli sottraggono.
Ma TNTVillage non è mai stato contro gli editori e ha sempre rispettato le richieste dei detentori dei diritti di escludere il materiale che questi non volevano fosse presente sul forum (cosa che ovviamente è una stupidaggine perché il fatto che non sia presente su TNTVillage non significa che le persone non continuino a scambiarlo).
Alcuni editori, che probabilmente hanno definitivamente perduto la propria capacità critica e il fondamento del proprio valore nella società accecati dalla cupidigia, tentano di colpire TNTVillage non per i danni commerciali che TNTVillage procura loro (perché eventualmente sarebbero i peer a farlo), ma perché la semplice esistenza di questo sito dimostra che la strada alternativa dello scambio etico sarebbe praticabile se solo l’industria dello sfruttamento della creatività tornasse a rispettare il patto civile che gli ha concesso i privilegi di cui godono e se il potere politico si desse da fare per estendere la portata dell’equo compenso, che già si paga, ai trasferimenti.
Di fronte alle sempre più sguaiate richieste dell’anti-pirateria, che ormai senza mezzi termini è ben disposta a mettere in galera chiunque, avendo ormai perso completamente il senso della propria esistenza, TNTVillage risponde con la pacatezza di chi sa di avere il diritto dalla propria parte, se non ancora la legge.
La resilienza di TNTVillage si deve al solido impianto ideale della sua proposta che riesce ad infilarsi come una spina nelle contraddizioni di questa dissennata guerra del copyright ma anche, e in una misura di cui non è possibile dare conto semplicemente parlandone, alla forza e alla pervicacia del responsabile del sito: Luigi Di Liberto,.
Luigi è il padre-padrone di TNTVillage o come si è solito dire nel campo informatico: il benevolente dittatore a vita. Non è un ruolo elettivo ma piuttosto il riconoscimento dell’impegno che costantemente ha messo in questi venti anni di attività. Impegno che si esprime nell’essere presente ed orientare il forum con i suoi regolamenti, con le procedure, e talvolta gli scontri che assumono caratteri biblici, ma soprattutto nel non recedere mai una volta quando, a partire dal 2006, gli editori hanno iniziato ad aggredire TNTVillage.
Con un carattere che talvolta diventa ruvido, mantiene la comunità nei canoni dell’azione politica, tentando di non far scadere l’iniziativa in un «liberi tutti» come l’entusiasmo talvolta porta a fare. Sebbene ascolti attentamente, ha sempre l’ultima parola sulla definizione delle regole e talvolta prende decisioni drastiche, come l’allontanamento di membri anche importanti, quando comprende che il loro comportamento potrebbe mettere a repentaglio il sottile equilibrio che ha tenuto in piedi la comunità per tutto questo tempo. Anche perché per quegli errori sarà chiamato in tribunale a risponderne.
Nei casi delle azioni legali, anche se chiunque ha il pieno diritto di intentare una causa legale per tutelare quello che pensa essere un proprio diritto negato, non si può non considerare che queste ormai assumano il valore di deliberate aggressioni alla persona di Luigi Di Liberto per imporgli a terminare quest’esperienza. Attacchi che probabilmente in un sistema giudiziario più attento alla tutela dei cittadini rientrerebbero nel novero delle cause intimidatorie.
Luigi Di Liberto, come responsabile di TNTVillage, non si è mai tirato indietro e difeso da ottimi avvocati, talvolta pro-bono in virtù del grande valore civile delle sue azioni, ha sempre dato battaglia per affermare il suo diritto, che è anche quello di tutti i cittadini, ad una vera Società della Conoscenza, e non ad un far-west del copyright gestito come fosse cosa propria da un piccolo numero di intermediari incattiviti dalla propria stessa inefficienza.
Luigi, con infinita pazienza e un gran cuore, risponde alle lettere minacciose degli avvocati o dei burocrati delle associazioni antipirateria e si è fatto portare in tribunale, causa dopo causa, talvolta finendo prosciolto, talvolta condannato a pene pecuniarie per permettere alla comunità di andare avanti. Non si sono ancora mai aperte le porte della prigione per lui, ma da antico radicale probabilmente lo accetterebbe di buon grado pur di stimolare una presa di coscienza su quest’argomento.
Il faldone “giudiziario”, con tutte le lettere, gli inviti di comparizione, le carte delle indagini, i sequestri «inaudita altera parte» (ovvero a sorpresa), le assoluzioni e le condanne che porta spesso in giro è, esso stesso, un pezzo di Storia di questo paese.
Non esiste nessuna contestazione da parte di TNTVillage nei confronti della «macchina della giustizia», dei magistrati, degli inquirenti o delle forze dell’ordine. Anzi, TNTVillage si è sempre mostrata collaborativa e attenta alle necessità delle giustizia e dei legislatori. D’altronde, pur riconoscendo i limiti della legge attuale, l’azione di TNTVillage sostiene pienamente il diritto che vorrebbe riconosciuto nello scambio etico. Da questo punto di vista i trucchi adottati da chi lo denuncia finiscono talvolta per essere un vero insulto alla verità, se non al diritto.
In realtà TNTVillage non rientrerebbe neppure in una battaglia di «disobbedienza civile» ma solo nell’interpretazione in una chiave più consona con il diritto. di quel patto di scambio che esiste tra la società civile, che detiene la proprietà dei beni intellettuali, e chi ne ha ricevuto la possibilità di sfruttarli, a favore e non contro il bene collettivo.
Ma il coinvolgimento di TNTVillage nella riforma del copyright non si è fermato nel proporre attivamente un’alternativa praticabile attraverso l’azione militante, ma ha cercato la collaborazione delle istituzioni. TNTVillage ha infatti partecipato all’indagine conoscitiva sul diritto d’autore dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni che poi ha portato al Regolamento in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica (Delibera n. 680/13/CONS) e ha collaborato alla presentazione della proposta di legge di BELTRANDI ed altri: “Modifiche alla legge 22 aprile 1941, n. 633, in materia di comunicazione di opere al pubblico da parte di persone fisiche che scambiano archivi attraverso reti digitali per fini personali e senza scopo di lucro, nonché di riproduzione privata dei fonogrammi e videogrammi dalle medesime messi a disposizione del pubblico”, ha persino organizzato manifestazioni pubbliche in piazza a favore del peer-to-peer e sebbene le speranze dei tanti che credono ancora oggi che queste richieste rimangano inevase nella società, TNTVillage fino ad oggi non ha mollato.
La santa guerra a TNTVillage
Gli editori, e con loro il mondo politico che talvolta ne è succube, non intendono mettere in discussione i propri modelli antisociali che contrastano con la realizzazione della Società della Conoscenza. La forza del denaro permette loro di sottrarsi ad ogni confronto pubblico, e la stampa nazionale non brilla certo per imparzialità. Continuano a ripetere ossessivamente i mantra della «proprietà intellettuale» o snocciolare i numeri autoprodotti senza il supporto di metodologie di ricerche affidabili, della lotta alla pirateria, a cui i politici e la stampa, ormai disabituati alla minima verifica delle fonti, abboccano senza contestare.
Quando devono scendere in campo per tutelarsi, però, non possono non esporsi. È un altro aspetto positivo della strategia giudiziaria di TNTVillage. La legge non ammette ignoranza, ma neppure la patente invenzione di fatti inesistenti e per quanto ogni processo, specie in Italia, è un po’ un terno al lotto, di sicuro non bastano le sbrigative bugie propalate dalle organizzazioni anti-pirateria ai politici per convincere i magistrati.
Quindi ogni causa contro Luigi Di Liberto finisce per far emergere tutte quelle contraddizioni su cui è costituito il mondo del copyright.
Ad esempio quando qualche editore invia una minacciosa lettera pretendendo la generica rimozione di «contenuto di sua proprietà», senza indicare quale sia il contenuto e soprattutto con quale titolo ne reclama il diritto, talvolta si scopre che questa ventilata «proprietà» non sia affatto così sicura.
In questi casi, paradossalmente, si può vedere come dare per scontato che un editore che vanti la proprietà di un libro non sempre ne ha i diritti e persino gli autori stessi o gli eredi non sono a conoscenza che potrebbero essere tornati in possesso delle opere, o che queste siano finite nel pubblico dominio. In questi casi TNTVillage veramente rende di nuovo accessibile una conoscenza che, allo stato dei fatti, sarebbe piuttosto completamente perduta per la società che si dimostra ossequiosa di regole inesistenti.
Un’altro esempio riguarda il fare “giustizia” della legge, quella vera e non quella immaginata dagli editori. E la vera legge, a dispetto di quanto vogliono far credere, pur continuando ad essere sbilanciata contro la società della conoscenza non è così dura.
La legge punisce effettivamente la distribuzione di materiale di cui non si hanno i diritti, ma se si escludono i casi di lucro, le pene sono solo amministrative e limitate alla gravità del fatto, che se ben calcolato può essere risibile. Inoltre sono tutte ancora da valutare le attenuanti che riguardano appunto la volontà del trasgressore di rendere disponibile la conoscenza per tutti, laddove i detentori dei diritti non lo facciano.
La legge di tutela del copyright è chiara sulla questione del lucro, e le forze dell’ordine e le autorità indipendenti, che non sempre si lasciano trascinare nello psicodramma degli anti-pirati, si impegnano principalmente a perseguire chi immette online contenuti pirata per ottenere un lucro diretto, ad esempio quelli che guadagnano attraverso la pubblicità online, ma soprattutto le piattaforme di distribuzione degli eventi sportivi in diretta, che hanno un giro d’affari rilevante e vaste complicità dei negozianti che vendono «abbonamenti» ai canali abusivi.
Anche chi fruisce dei contenuti è perseguibile, ma «[…] di fatto, chi guarda film o serie tv in streaming, o compie un download per utilizzo personale e singolo, non rischia praticamente niente. […] Per come stanno le cose, insomma, fruire di questi contenuti senza condividerli su internet allontana realmente ogni potenziale ritorsione legale, anche se in teoria si sta comunque compiendo un illecito che prevederebbe una sanzione amministrativa.»
Questo rende molto chiaro come l’attività legislativa, e quella dei lobbysti retrostante, ben lungi dal voler colpire il commercio illecito ha voluto piuttosto colpire il peer-to-peer a causa della sua portata politica. Le forze dell’ordine invece, valutando con correttezza la portata economica del danno che TNTVillage realizza agli editori, lo hanno fin qui trascurato preoccupandosi di perseguire i reati più rilevanti.
Come sostiene l’avvocato Fulvio Sarzana in una intervista a Vice: «Chi immette su sistemi di file-sharing contenuti protetti dal diritto d’autore, senza scopi di lucro, rischia una sanzione penale. Ma è una sanzione di tipo pecuniario — fino a 2.065€ — che non prevede la reclusione.» È quello che ha dovuto pagare Luigi Di Liberto assumendosi ogni responsabilità delle attività di TNTVillage.
È la sanzione «giusta» di una legge comunque sbagliata perché colpisce un comportamento, il peer-to-peer che, con le dovute regole sociali, ad esempio con quelle di scambio etico, ha un valore positivo per la società, e le eventuali perdite dei possessori dei diritti, se proprio non si vogliono considerare già ripagate dall’«equo compenso» che già percepiscono, potrebbero tranquillamente essere liquidate con forme di licenze collettive che coprano le attività di sharing senza fine di lucro.
Quanto ai contenuti veramente illegali, per dirla con le parole dell’avvocato esperto in diritto d’autore, Fulvio Sarzana: «Uno dei problemi reali che alimenta la pirateria online, però, rimane intatto: ovvero l’inadeguatezza dei servizi legali. Se non cambieranno questi servizi — rendendoli cioè più accessibili, funzionali, ed economici — sarà difficile arginare totalmente il fenomeno.»
Ma l’inadeguatezza dei servizi legali, dovuta all’indisponibilità dei possessori dei diritti all’innovazione, inizia dall’errore fondamentale, la madre di tutti gli errori nel campo: aver permesso al copyright di abbandonare il suo ruolo di scambio etico per illudere, speriamo ancora per poco, di essere diventato una «proprietà» da usare contro la società (della conoscenza).
La situazione ora
Già da tempo la piattaforma TNTVillage è entrata in una fase di stallo prima ancora delle ultime iniziative giudiziarie, a causa del software del forum che è diventato via via obsoleto e non più gestito e che quindi rende difficile il coinvolgimento della comunità. Il problema principale è tecnologico quindi (se la piattaforma facesse i guadagni che gli vengono imputati non girerebbe su un software evidentemente “fatto in casa” che cade a pezzi da tutte le parti). Inoltre lo stesso Luigi Di Liberto ha dovuto riprendersi da un ictus che lo ha colpito nel 2011 e che per qualche anno gli ha impedito di seguire la comunità, incapace quasi di muoversi e parlare. Negli ultimi anni la salute di Luigi Di Liberto è migliorata e pur dovendo sottoporsi frequentemente a cure mediche, ha ripreso la sua battaglia per il copyright e il suo ruolo di benevolo dittatore di TNTVillage, dopo che una specie di ammutinamento durante la sua malattia avrebbe voluto allontanarlo.
Comunque a causa dell’attuale inadeguatezza della piattaforma, che è addirittura rimasta chiusa per una decina di giorni ad Ottobre per un guasto tecnico, Luigi non accetta donazioni e ha chiuso le nuove iscrizioni al forum, sebbene sia sempre possibile scaricare le release (tracce) per dare il via ai download. Dopo un periodo sfortunato oggi la traballante barchetta di TNTVillage, mostrando una resistenza quantomeno invidiabile, solca ancora il mare digitale italiano, per quanto non tanto in buone condizioni, nella speranza di mantenere la promessa di Luigi Di Liberto di spiegare nuove vele con un software tutto nuovo per il prossimo anno.
Qualcun altro dovrà farsi carico, speriamo non troppo tardi, di ricombinare la legge con il diritto coprendo, eventualmente con una licenza collettiva per il trasferimento tra privati e senza scopo di lucro, il file-sharing. Sarebbe la soluzione più ovvia. Chissà se Luigi Di Liberto la considererebbe adeguata.
Dai porti de La Tortuga informatica per ora è tutto!
Appendice: diritto o legge?
In questo documento si fa una una distinzione che è necessario chiarire brevemente. Si parla di diritto e di legge come due cose distinte nel seguente (per quanto superficiale) senso: la legge è l’insieme di norme scritte, che hanno necessariamente una forma finita, che è quella data dal legislatore in un particolare momento storico. Una legge è una rappresentazione formale di un diritto (e dei relativi doveri), per quello che è il sentimento prevalente del legislatore (e quindi in linea di massima della società) e per come l’equilibrio politico del parlamento permette di realizzarla. I giudici devono (o almeno dovrebbero) usare questa legge scritta per discriminare quelli che sono i comportamenti eventualmente delittuosi.
Ma il diritto è un’altra cosa. È qualcosa che di solito è rappresentato nella legge, ma talvolta a causa delle condizioni socio-politiche non lo è per niente. Talvolta un diritto è evidente, esplicito e acquisito tra le persone, eppure le istituzioni faticano a riconoscerlo, per vari motivi non ultimo l’interposizione di gruppi politici attivi che acquisiscono un ruolo nei lavori legislativi contrari al sentimento popolare, ma ben sostenuto da particolari lobby di potere, contrari a quel diritto per motivi ideologici o economici.
Il fatto che una legge impedisca un particolare comportamento e lo condanni, anche duramente, non necessariamente è indicatore che la legge sia «giusta». Talvolta la legge è nel torto rispetto al diritto, ma è pur sempre la legge. In questi casi la condanna di un giudice, che è tenuto a rispettare la legge scritta, può essere l’inizio di una battaglia per cambiare quella legge e riconquistare il diritto negato. La speranza del potere è sempre che la condanna, e quindi la riprovazione sociale che ne proviene, estingua la battaglia.
Un caso esemplificativo è, ad esempio, la legge italiana che impediva il divorzio, i tanti casi di processo per «abbandono del tetto coniugale» fino alla promozione delle legge Fortuna-Baslini e il successivo superamento del referendum popolare abrogativo contro tale legge in cui si percepì chiaramente l’incapacità della maggioranza parlamentare italiana di liberarsi della morsa della lobby vaticana, mentre la società era notevolmente più avanti dei propri rappresentanti politici. Oggi il divorzio è accettato come un diritto pacifico dei cittadini, ma in un certo periodo storico era impossibile e condannato dalla legge.
Una modalità attiva di contrastare l’assenza di un diritto, oltre quello di cercare di conquistare una maggioranza parlamentare per cambiare la legge, è quella di confrontarsi con la legge, e quindi farsi giudicare da quella legge, per renderne evidenti le contraddizioni e permettere all’opinione pubblica di riflettere sulla discrepanza tra il diritto che sentono di avere e invece i limiti della legge che hanno. È il modo di combattere intrinsecamente nonviolento, perché mira a modificare il sentimento popolare, reso famoso da Gandhi sotto il nome di disobbedienza civile.
Il fatto che una legge contrasti un comportamento quindi non è indice necessariamente che quel comportamento sia in sé delittuoso, è possibile che sia solo inviso ad una maggioranza parlamentare, e non ad una maggioranza dei cittadini, in quanto i loro rappresentanti possono essere succubi dell’azione di una lobby economicamente o ideologicamente avversa a quel comportamento.
Questo documento ha v. 1.0–20180123ì. Il documento aggiornato è qui, contiene anche un esteso corpus di note.